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Conoscere lo stato emotivo
di Onorio Zaralli
Excerpt from Onorio Zaralli’s book “Playing with the soul” ©2017
Conoscere è una esigenza dell’uomo. Ignorare è un bisogno dell’uomo.
La differenza è chiara: conosco, quando ho esigenza di imparare e di crescere liberamente; ignoro, se ho bisogno di nascondere, se preferisco “conservare” piuttosto che rischiare di perdermi nella libertà. Bene: per quanto riguarda l’universo emotivo, spesso prevale la scelta dell’ignoranza. Strano ma vero. Una volta sentii dire da una insegnante alla sua allieva, piuttosto brava ma visibilmente tesa prima del concerto: “quando sarai in sala, non guardare il pubblico, ignoralo completamente, suona come se non ci fosse nessuno”. Ecco, la scelta del buio, di chiudere gli occhi di fronte al mostro, rinunciando a conoscere e guardare la realtà.
Lo stato emotivo è, in realtà, qualcosa di molto dinamico. E’ capace di infinite nuances, anche quando si tratti della stessa “matrice emotiva”. Pensiamo alla prima linea melodica dell’Adagio mozartiano preso prima in esame: è un tema “espressivo”, certo. Ma quanti caratteri emotivi si celano dietro la parola generica di “espressivo”! Può essere intensamente lirico, o graziosamente cantabile, o contemplativo, o più intimo, o ancora narrativo, ecc. ecc. Ecco allora che la ricerca del carattere emotivo di un brano musicale non può prescindere dalla ricerca sui caratteri emotivi presenti nella nostra “mappa” emotiva. Del resto, è stato così anche con lo studio della tecnica musicale: abbiamo ottenuto il doppio staccato, ad esempio, quando abbiamo compreso e acquisito il meccanismo articolatorio alternato della lingua e della gola. Dirigiamo quindi la ricerca sull’emotività, in primo luogo, su di noi.
Cosa dobbiamo fare?
- conoscere gli stati emotivi presenti, e capire da dove derivano;
- predisporre un itinerario di sviluppo.
Successivamente, in qualità di musicisti, avremo la possibilità di seguire due ulteriori percorsi:
- comprendere la qualità emotiva del brano;
- ricrearla musicalmente.
Per conoscere i nostri stati emotivi è sufficiente impiegare ogni giorno un po’ di tempo alla autoanalisi Sicuramente, ci riconosceremo in uno dei “tipi psicologici” prima presentati. Questa sarà la base di partenza per la nostra ricerca.
Ma c’è un motivo che rischia di fermare sul nascere la nostra ricerca:
- incapacità (per mancanza di abitudine) di riconoscere se stessi, le proprie dimensioni emotive;
- paura (per mancanza di fiducia) di non potersi comunque evolvere;
- perplessità (per mancanza di senso critico) che la dimensione emotiva possa svolgere un ruolo importante nella prassi esecutiva;
- timore (per mancanza di una educazione all’autonomia) del giudizio degli altri.
Guardiamole più da vicino.
L’incapacità di conoscere e riconoscere se stessi è dovuta al fatto che – il più delle volte – si tende ad attribuire ad altri ciò che non siamo disposti ad attribuire a noi stessi. Si sbaglia, “per colpa” di altri. L’inizio della tal frase musicale è risultato impreciso perché il pianista (sempre il pianista!) era leggermente in ritardo rispetto a noi, ecc. ecc. Può essere anche vero. Ma è sbagliato scaricare le “colpe” unicamente su altri. Ciò rende, per principio, impossibile ogni ricerca. Perché non ci chiediamo quante prove, quanta attenzione abbiamo posto nella costruzione del brano insieme ai nostri partners, quanto studio individuale abbiamo svolto sul nostro spartito, quanta riflessione abbiamo dedicato alla esecuzione, poi all’analisi, poi ancora allo stile… La prima cosa da fare è allora quella di orientare il microscopio verso di noi, per imparare a conoscerci nel profondo. Del resto, se vogliamo evolverci, è proprio da noi che dobbiamo partire, non certo da altri. Troveremo, nel segreto delle nostre scoperte, un universo emotivo illimitato, che non dobbiamo fermarci a giudicare, quanto piuttosto imparare ad osservare. E se proprio non possiamo fare a meno di giudicarci, stiamo almeno attenti ad usare l’ausiliare giusto: “ho” sbagliato, ma non “sono” sbagliato.
La paura di non potersi evolvere deriva da un concetto “culturale” contrario a qualsiasi legge “naturale”. La trasformazione comunque esiste, anche al di fuori della nostra volontà, solo che noi vogliamo che sia evolutiva e non involutiva. Ma per fare questo occorre coraggio. Il coraggio di chi è disposto ad affrontare le crisi (dal greco, “forze distintive, scelte, separazioni”) che sopravvengono quando si passa da uno stato all’altro, quando non si è più ciò che si era ma non si è ancora ciò che si sarà. E’ un momento molto delicato… Un esempio, forse un po’ banale: eravamo abituati ad una certa tecnica strumentale; poi qualcuno ci ha suggerito di cambiare “impostazione”, per raggiungere risultati migliori. Ora, il passaggio da un modello di tecnica all’altro rappresenta proprio la “fase critica” cui accennavo poc’anzi; fase che spesso può disorientarci, togliendoci qualsiasi punto di riferimento che, seppur sbagliato, rappresentava comunque una certezza. Occorre non avere paura. Non possiamo rinunciare alla evoluzione. Per non invecchiare nell’immobilismo e nella ripetitività.
In una civiltà in cui prevale la dimensione dell’avere da quella dell’essere, in cui il denaro rappresenta la premessa e il fine di qualsiasi scelta, è difficile pensare che l’emotività sia qualcosa di reale, di importante. Forse è qualcosa di astratto, una fantasia puerile. E’ la tecnica che conta, o lo strumento tecnologicamente perfetto. Ma questa è una strada che, anche se percorsa bene fino in fondo, porta all’omologazione, al suonare senz’anima. Diceva Anton Rubinstein, circa un secolo fa: “ai nostri tempi, tutti suonano bene”, ma lo diceva con un’espressione di amarezza, di fronte al tecnicismo esibizionistico che non è arte, perché riduce la poesia della musica a puro esercizio meccanico. Da allora, le cose non sono molto cambiate: “ha una tecnica eccellente”, un complimento per molti invidiabile. Personalmente non credo che si possa essere artisti senza una tecnica esecutiva eccellente, ma non credo anche che questa basti per essere veramente artisti.
Se il nostro scopo è quello di ri-creare la pagina musicale, dobbiamo sapere che essa non è solo note, armonie, forma; è, in primo luogo, prodotto di un’anima pensante che noi dobbiamo rivelare, a noi e agli altri. Deridere questo aspetto della ricerca vuol dire non aver capito nulla dell’essenza dell’arte.
Il timore dell’opinione altrui provoca un effetto castrante sull’autonomia e sulla libertà di espressione. Molti sono i casi in cui le nostre azioni sono determinate dalla preoccupazione di piacere agli altri; e questo può avvenire per almeno due ragioni:
- si agisce per consuetudine, perché questa è l’opinione prevalente. Sembrerà strano, ma anche nella prassi musicale è diffuso questo modo di pensare e di agire. Nonostante indicazioni precise dell’Autore, per esempio, si suona in modo diverso (arbitrario) perché così suona il grande concertista, il direttore famoso, ecc. Andare contro corrente può rappresentare un rischio. Meglio restare nel branco;
- mancanza di autostima. Quando questa manca, ricerchiamo stima degli altri, così come quando non si hanno opinioni proprie, si prendono in prestito quelle degli altri. Ma gli altri ci giudicano secondo le loro categorie di giudizio; ecco allora che ci sforziamo di entrare in schemi che non ci appartengono.
Non occorre aggiungere altro per sottolineare la gravità di questa dimensione. Ora, questa è la diagnosi (conoscenza). Proviamo a ipotizzare un percorso di studio che, partendo dal superamento di dimensioni parziali, favorisca uno sviluppo integrale.
Conosci te stesso
Il titolo è banale, il contenuto un po’ meno. Lo hanno ripetuto tante volte i grandi pensatori della storia. In realtà è la cosa più difficile da fare, rivolgere lo sguardo all’interno di noi stessi. Noi ci accontentiamo di restringere questa prima indagine al nostro essere artisti.
A proposito: cosa vuol dire essere artisti?
Artista è colui che studia, lavora, vive nell’arte. L’arte è una forma elevatissima di conoscenza della realtà. Ma anche di rappresentazione, di interpretazione, di trasfigurazione, di idealizzazione, di rivelazione. L’artista non è dunque il “geniale demente” con la testa tra le nuvole, tutto “genio e sregolatezza” che pensatori anche illustri hanno voluto tramandarci. L’arte, diceva Rossini, è “ciò che dà forma al sentimento ed è dunque studio, studio e ancora studio”.
Più di molte altre attività umane, l’arte fa appello alla totalità delle nostre facoltà, ci assorbe e ci esige globalmente. L’arte è materia, razionalità, emozione, spiritualità. L’artista dunque deve possedere tutte queste facoltà al massimo grado di sviluppo, affinché la sua capacità di espressione risulti perfettamente compiuta. Esplorando le nostre personalità, possiamo certamente rilevare che alcune di queste facoltà sono già presenti, altre meno definite, altre ancora appena delineate.
Partiamo dunque dalla situazione presente, con una autodiagnosi serena. Nel contempo, vediamo di individuare quali sono le facoltà della dimensione emotiva che riguardano l’essere artista.
Sensibilità
La sensibilità è una qualità fondamentale dell’arte e – di conseguenza – una qualità prioritaria per l’artista. Come ogni altra facoltà, si presenta in misura diversa tra individuo e individuo e, nella stessa persona, tra situazione e situazione. Sensibilità è la capacità di percepire l’infinitamente piccolo presente nella sfera emozionale: la conoscenza del microcosmo, la leggerezza dell’essere, l’ultima vibrazione del suono. Limitando il discorso ai piani dinamici, per esempio, con una sensibilità – per così dire – media, noi siamo in grado di “sentire” con sufficiente misura la gamma p – f, con tutte le sfumature intermedie. Già più difficile riesce la percezione esatta del pp o del ff, considerati limiti estremi: il pp spesso debole, senza vita; il ff aggressivo e violento. Già questo ci offre spunti di riflessione.
Ecco alcuni esercizi per l’acquisizione e il potenziamento della sensibilità.
Esercizio sulla “dinamica”
Proviamo ad emettere un suono qualsiasi, in mf, concentrando la nostra attenzione sul suo livello dinamico, senza curarci di altro. Riduciamo gradualmente la dinamica, fino ad arrivare allo zero assoluto, ma procedendo molto lentamente. Se abbiamo bisogno di respirare, riprendiamo poi il suono dal livello dinamico appena lasciato, e scendiamo sempre di più verso il basso. Visualizziamo, mentre suoniamo, un’asta graduata: ad ogni grado corrisponde una intensità diversa; il suono scivola lungo l’asta, lentamente, fino allo zero. Non dobbiamo avere fretta; prendiamo, a mo’ di guida, la risonanza prodotta da un suono unico emesso da pianoforte: prima di spegnersi impiegherà molti secondi, diminuendo progressivamente ma mantenendo sempre la sua vitalità. Ripetiamo l’esercizio, partendo dallo stesso livello iniziale di intensità, ma procedendo – questa volta – verso l’alto della scala graduata, fino a raggiungere un punto al di là del quale il suono si rompe, si deforma, non è più lo stesso.
Con la pratica continua di questo esercizio riusciremo ad estendere progressivamente le estremità dinamiche del nostro suono; sarà anche una conquista tecnica, potremo disporre di strumenti esecutivi più potenti e precisi.
Esercizio sul “colore”
Emettiamo una nota in mf, senza vibrato. Senza alterare la dinamica, agiamo ora sulla “temperatura” del suono.
Proviamo a pensarlo
- metallico ma sonoro;
- freddo e fermo;
- espressivo e pastoso;
- caldo e passionale.
Inizialmente potrà risultare difficile – non potendo agire sulla dinamica né sul vibrato – ma in seguito
cominceremo a percepire delle differenze, sempre più evidenti. Possiamo ripetere l’esercizio su una nota diversa e adottando una dinamica diversa (mp – p – f, ecc.)
Esercizio sul “vibrato”
Emettiamo un suono qualsiasi in mf. Procediamo in due direzioni:
- velocità del vibrato;
- ampiezza del vibrato.
Senza modificare la dinamica di base, aumentiamo gradualmente la velocità del vibrato: per quarti,
ottavi, terzine di ottavi, sedicesimi, sestine di sedicesimi, ecc.
Con un vibrato lento, aumentiamo però la curva dinamica del vibrato, accentuando sempre di più le
altezze dinamiche alle sue estremità: mp – mf; p – f; pp – ff.
Ripetiamo l’esercizio con note diverse e variando la frequenza del vibrato.
Esercizio “combinato”
Emettiamo un suono qualsiasi, senza vibrato, ad un livello dinamico a nostra scelta.
Mentre suoniamo, visualizziamo di fronte a noi tre diversi strumenti per la trasformazione del suono:
- asta graduata per la dinamica;
- quadrante cromatico;
- regolatore di intensità e di ampiezza del vibrato.
Procediamo alla variazione – anche casuale – degli indicatori sugli strumenti e trasformiamo di volta in volta il nostro suono. Sarà un esercizio appassionante, divertente e – credetemi – utilissimo. Vorrei dare solo una indicazione: se, per una nota, disponiamo di cinque possibilità dinamiche, quattro colori e cinque tipi di vibrato diverso, otterremo cento modi diversi di emettere quella nota stessa! (e questo è un calcolo molto riduttivo).
Dopo aver praticato questi esercizi, proviamo ad eseguire – solo per esperimento – le prime battute del nostro Syrinx. Sarà incredibile constatare di quante sfumature siamo ora capaci a livello tecnico-strumentale. La nostra sensibilità dispone ora di strumenti più raffinati, l’orizzonte emotivo è capace di estendersi maggiormente, e di percepire con sorprendente precisione. Una conquista tecnica – è vero – ma anche una diversa “quota” del nostro standard esecutivo.
O. Zaralli
www.onoriozaralli.webnode.it | Scuola Flautistica Italiana | Youtube
Onorio Zaralli si diploma con il massimo dei voti in flauto presso il Conservatorio di Musica “S. Cecilia” di Roma, conseguendo successivamente il diploma “solista” al Royal College of Music di Londra. Premiato nei concorsi di Ancona, Stresa, Palmi e Città di Castello, matura esperienze orchestrali in seno all’Orchestra della Radiotelevisione di Bucarest, Orchestra Sinfonica di Sanremo, Orchestra Sinfonica dell’Accademia Nazionale di S. Cecilia di Roma. Come solista, è attivo in Europa, USA, Messico, Korea, Australia. E’ autore di libri, studi e composizioni per flauto.