Il flauto prima del flauto

di Paolo Dalmoro

Ovvero alcune considerazioni sul flauto “vecchio sistema” e sul perché sarebbe utile ritornare a suonarlo

Chi tra voi avrà avuto necessità, per lavoro, studio o diletto di approfondire la storia del flauto, avrà sicuramente incontrato una nutrita bibliografia relativa a testi e trattati sul traversiere  barocco, sulla traversa rinascimentale, sul flauto presso gli antichi greci e romani e naturalmente sul flauto Boehm, dai primi strumenti conici sino a quelli più recenti e moderni. Ovviamente avrà anche a disposizione una fornita discoteca con esecuzioni filologiche su strumenti antichi, siano essi barocchi che rinascimentali, perfino copie di strumenti medievali. 

Per quanto riguarda invece il flauto nel periodo romantico la situazione è inversa. Sono infatti piuttosto rari i testi che ne illustrano la tecnica e la prassi esecutiva, in particolar modo per quanto riguarda il cosiddetto ” flauto a chiavi” ovvero quello che in Italia chiamiamo più comunemente “flauto Ziegler” dall’omonimo costruttore Austriaco. 

Pensate che buona parte degli esercizi che abbiamo studiato in conservatorio, per il quinto anno o per il diploma, non sono stati composti per il flauto moderno bensì per il flauto a chiavi, in altri termini, un po’ come se i pianisti si formassero unicamente su composizioni per clavicembalo. Italo Piazza, Hugues, Galli, Furstenhau, Andersen, Koelher, Ciardi, nessuno di questi adottò il flauto di Boehm nella sua carriera, anzi alcuni di questi, come il Piazza, lo aborrirono.

Da qui nasce una riflessione: considerando che le difficoltà esecutive e tecniche dei due strumenti sono assai diverse, ne deriva che l’approccio didattico, per semplificare, deve per forza essere differente, quindi, tanto per intenderci la “Scuola del flauto” di Hugues (Per tutti coloro che volessero approfondire la figura di Pietro Eugenio Luigi Hugues consiglio il bel saggio curato da Claudio Paradiso con la catalogazione delle opere redatta da Ugo Piovano. Edito dal Comune di Casale Monferrato 2001) con i suoi duetti “progressivi” suddivisi in 4 gradi è progressiva per il flauto che conosceva e suonava il flautista/scienziato casalese e non per il flauto moderno; stessa cosa vale per Andersen, Galli e tutti gli altri: piccolo particolare sul quale però non si riflette (vi siete mai chiesti il perché dei tempi di metronomo esageratamente veloci degli studi di Andersen?).

La Scuola del Flauto Op.51  di Hugues (pubblicata nel 1884) è sotto forma di duetti in cui la parte superiore è affidata all’allievo e quella inferiore al maestro, essendo le due parti differenti per difficoltà (come nella maggior parte degli studi del periodo).

Trascrivo dalla prefazione dell’Autore:

La presente opera è destinata [….] a servire di guida a coloro che si danno allo studio del Flauto. Essa suppone necessariamente che l’allievo si trovi già versato negli elementi musicali ed anzi che esso abbia acquistato, per quanto si riferisce allo strumento, un certo grado di sicurezza nelle posizioni per tutta l’estensione della scala, non che nel maneggio delle piccole chiavi”.

dall’Indispensabile Metodo Pratico Op. 100 di Raffaele Galli

Le piccole chiavi sono naturalmente quelle proprie dello strumento, in particolare quelle del Fa, del Do, del Sib e del Sol#. Il primo esercizio è in Re maggiore, una tonalità piuttosto semplice essendo lo strumento in “Re”, in altri termini, la posizione del Fa# è con l’indice della mano destra (con l’ausilio della piccola chiave del Fa per correggerne l’intonazione) e non con l’anulare, analogamente, il Do#, a secondo dell’ottava, si esegue con posizioni che mantengono comunque stabile lo strumento, permettendone l’esecuzione senza “perdite di equilibrio” normali ad esempio per le piccole mani di un bambino.

Vi sono numerosi altri esempi di questo tipo ed alcuni riguardano anche gli studi del corso superiore (stiamo parlando sempre del vecchio ordinamento) dove è chiara la differenza di obiettivo didattico, mi riferisco, sempre per esemplificare, al secondo studio dei ” 12 grandes études de style” di Jules Herman caratterizzato da terzine di semicrome.

La prassi vuole che, seguendo gli insegnamenti di Tulou del quale Jules Herman fu allievo, si applichino alle terzine, le posizioni delle “notes sensibles” sull’esecuzione delle quali è fondato l’intero studio e che ne caratterizzano fortemente gli aspetti interpretativi, di digitazione, sonori e d’intonazione, praticamente tutt’altra cosa rispetto all’esecuzione alla quale siamo abituati. Le “notes sensibles” erano così importanti che vennero applicate da Altes, anche lui allievo di Tulou, al flauto moderno e trattate nel suo celebre metodo, dove sono anche indicate le posizioni per ottenerle (Ricordo che anche Bennett, molti anni dopo, ne faceva uso).

Giuseppe Rabboni, nella sua riscrittura del celebre metodo di Berbiguier riprende la pratica delle “Note sensibili” importando così uno dei tratti fondamentali della scuola francese, analogamente a Mercadante con la sua revisione di un altro celebre metodo, quello di Devienne.

Rabboni – Berbiguier Metodo per flauto

A parte questi esempi, è importante considerare che:

  1. i Programmi Ministeriali italiani (vecchio ordinamento, naturalmente) risalgono al 1930 quando, in Italia ma non solo, era ancora uso comune l’utilizzo del flauto vecchio sistema al quale, molti docenti, perlopiù i più anziani, erano legati essendosi loro stessi formati su questo modello
  2. non esisteva ancora una folta letteratura didattica italiana per il flauto moderno, De Michelis, Lovreglio, Gariboldi ed altri avevano sì composto testi specifici ma, tranne alcune eccezioni, non furono considerati nei programmi, forse anche in virtù di quanto detto al punto precedente.

Non intendo inoltrarmi nell’ accesa “Querelle” tra sostenitori ed oppositori storici del flauto Boehm, mi interessa però sottolineare che ad oggi uno studio “comparato” , approfondito ma anche un approccio “flilologico” per riportare il repertorio ( o anche  solo parte di esso) di riferimento alla dimensione esecutiva originale non è ancora così diffuso, in modo particolare in Italia, fisiologicamente in ritardo rispetto altre nazioni europee, dove il flauto a chiavi sta entrando a tutto tondo nelle accademie e nei conservatori.

Sono stati eseguiti studi analitici e storici (molto interessanti) su numerose partiture senza però approfondire lo stretto rapporto composizione-strumento, condizione a mio avviso principale per una esaustiva conoscenza e corretta interpretazione musicale. “Partire” dallo strumento o meglio dal “tipo” di strumento è la prerogativa, oggi necessaria, per ri-leggere con una più corretta prospettiva (che ci consentirebbe anche un approccio critico più consapevole) il vasto e a volte vituperato, repertorio ottocentesco.

Sono dell’idea che, a partire dall’inizio del secolo scorso, vi sia stata una sorta di “rimozione collettiva” del flauto vecchio sistema a favore del Boehm, questo dovuto non solo alla correzione di “difetti” che questi ha apportato all’ intonazione ed al volume sonoro ma anche, e questo a mio avviso è l’elemento principale, alla tendenza sempre più marcata verso la normalizzazione e omologazione dell’esecuzione e della produzione sonora.

Se nel ‘700 e ancora nell’800 la “diversità” era un valore aggiunto ovvero, ogni scuola musicale, istituzione, orchestra, compositore, solista aveva un proprio strumento di riferimento (con timbro, diapason, volume, estensione, fattura, peso ecc. differente) che ne costituiva la peculiarità e caratterizzava lo stile esecutivo, così non lo è più stato con ‘adozione del flauto del costruttore bavarese.

Questo processo non ha potuto che svolgersi per primo in Francia, dove la centralità della formazione musicale, istituzionalizzata nel Conservatoire di Parigi, ha permesso, a livello nazionale ma non solo, l’omologazione.

Una standardizzazione che sì ha risolto molte criticità tra le quali quelle di compatibilità d’intonazione tra le diverse orchestre (ad esempio vedi anche decreto imperiale del 1859 che fissa il la” a 435 Hz a 15° centigradi) ma ha anche causato una perdita indubbia di sensibilità ed ha letteralmente spazzato via una cultura musicale. D’altronde questo processo, che certo non ha riguardato solo il flauto, non poteva essere che necessario. 

Il mio lavoro quindi è quello di recuperare e valorizzare queste differenze, cercando di interpretarle, di collocarle nel loro giusto contesto. Credo fermamente che la formazione dei giovani flautisti dovrebbe considerare, in un’ottica di verticalità curricolare, lo studio o almeno un primo approccio allo strumento a chiavi (così come lo è già per il flauto barocco) questo consentirebbe una corretta conoscenza del repertorio, un approccio critico e sicuramente una maggiore consapevolezza dello strumento.

Mi auguro pertanto che con il tempo possa essere presa in considerazione l’opportunità di inserire all’interno dei programmi accademici, corsi specifici, percorsi didattici complementari allo strumento principale.

Le nuove tecnologie, in particolare la stampa 3D in resina, con l’ausilio di scanner sempre più perfezionati ed economici, stanno dando risultati eccellenti anche nella riproduzione di flauti storici, in rete sono già disponibili file, anche gratuiti, da scaricare, stampare e suonare risolvendo così tutti i problemi di reperibilità di strumenti.

A breve ci sarà la possibilità di avere a disposizione strumenti da studio a basso prezzo, di qualità elevata e fedeli all’originale, utili per muovere i primi passi in questo straordinario mondo, ancora tutto da scoprire.


Paolo Dalmoro

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Paolo Dalmoro consegue il diploma in flauto nel 1987 con il massimo dei voti e la lode al Conservatorio “G.Verdi” di Torino sotto la guida di Mario Bricarello perfezionandosi in seguito con Renate Greiss. Inizia molto presto l’attività professionale collaborando, anche come primo flauto, con il Teatro Regio di Torino. Dal 1987 al 2007 ha insegnato in Istituti Musicali e Conservatori (Torino, Benevento, Scuola di Alto perfezionamento di Saluzzo, Academia Montis Regalis, Vercelli). Come solista si è esibito in festival e rassegne in Italia, Francia, Germania, Bulgaria, Etiopia, Kenya, Stati Uniti. Sempre come solista, ha inciso sei CD dedicati al repertorio inedito per flauto dell’Ottocento, editi da Niccolò, Tactus, Da Vinci Osaka, Aulicus, dedicati all’opera di autori quali Jules Demersseman, Giulio Briccialdi, Raffaele Galli, Marco Enrico Bossi, Jean-Louis Tulou, Eugène Walckiers, conseguendo sempre ampi consensi di critica.

Dal 2000 svolge attività di ricerca relativamente alla prassi esecutiva, su strumenti storici del repertorio del XIX secolo, e tiene regolarmente seminari e masterclass. Come esperto del flauto traversiere a chiavi ottocentesco, nel 2015 è stato nominato “Joan C. Edwards Distinguished Professor in the Arts” alla J. Marshall University – Huntington WV (U.S.A) dove ha tenuto un corso sulla prassi esecutiva del repertorio romantico con strumenti storici. Per le sue ricerche nel campo dell’esecuzione e la didattica su strumenti a chiave del secolo XIX, è stato invitato ad esibirsi, unico italiano nell’ambito del flauto storico, alla Convention annuale della National Flute Association a Washington D.C.

Nel novembre del 2022 è stato invitato a tenere una masterclass presso il conservatorio “F. Morlacchi” di Perugia. Ha inoltre collaborato, per la Regione Valle d’Aosta, al restauro dell’automa flautista di Innocenzo Manzetti.E’ stato per 25 anni responsabile delle attività educative e culturali dell’Opera Munifica Istruzione di Torino dove si è occupato di progetti di ricerca, educazione e divulgazione musicale.