Mozart, Concerto in Sol Maggiore KV 313 – Profilo estetico e stile esecutivo

di Onorio Zaralli

Il Concerto in Sol Magg. KV 313 non è certamente tra i lavori migliori di Mozart, ma rappresenta uno dei massimi capolavori della letteratura flautistica di ogni tempo.

W. A. Mozart, Concerto in Sol Maggiore KV 313 per flauto e Orchestra (cadenze di Onorio Zaralli)

Gianluca Vanzelli, flauto solista – Mihnea Ignat, direttore – Timisoara National Opera House 

Formalmente questo Concerto si colloca all’interno della cornice classica tradizionale: il primo movimento in forma-sonata, il secondo in movimento lento, il terzo in grazioso Rondò-Minuetto. La scrittura è sempre ben equilibrata, sia nel rapporto solista-orchestra, sia nell’articolazione delle singole frasi e dei periodi musicali.

Tale equilibrio fa sì che non vi sia mai una eccessiva predominanza del solista sulle voci orchestrali, nell’accezione “romantica” del termine. Questo è un tratto tipico di Mozart: quasi mai l’orchestra è ridotta a funzione di puro accompagnamento, cosi come mai – proprio mai – la voce del solista trascende i limiti di una scrittura sempre attenta al tessuto musicale complessivo.

Un esempio per tutti:

Siamo al centro dello sviluppo, nel corso del primo movimento. E’ ovvio che, come formalmente previsto, il solista debba assolvere ad un ruolo di primissimo piano. Ma osserviamo le voci orchestrali: archi molto eleganti e leggeri, violini primi e secondi che ricamano preziosissimi trilli col flauto. Per contro, l’esuberanza del flauto non si spinge mai oltre una certa misura: l’orchestra partecipa dialetticamente al movimento del solista che, a sua volta, procede con slancio senza tuttavia porre in ombra il disegno orchestrale.

Proviamo ora ad immaginare lo stesso periodo con gli archi in “secondo piano” e… torneremo indietro a Quantz:

Grande, grandissimo flautista, ma – forse proprio per questo – troppo attento alla voce esuberante dello strumento solista a scapito di una scrittura orchestrale più povera, ridotta a supporto ritmico e armonico.

Torniamo al nostro Concerto. Mozart esprime al meglio la sintesi di concetti apparentemente inconciliabili: oggettività e soggettività, geometria formale e intuizione poetica, individualità solistica e “democraticità” strumentale. La verità è che più che di sintesi dovremmo parlare di superamento di tali categorie: Mozart, infatti, non estende i limiti della scrittura tradizionale del concerto solistico, ma li supera in una scrittura nuova, dove tutto è essenziale e perfettamente organizzato. Veramente ogni piccola voce è parte essenziale del tutto; allo stesso tempo, nulla è superfluo, nulla può essere omesso senza arrecare gravissimo danno all’intera struttura compositiva.

Il miracolo della partitura mozartiana si basa proprio su questo: la conciliabilità degli “opposti”, natura e ragione, libertà e necessità, senza prevalenze e senza secondarietà di funzioni. E tutto ciò è evidente in ogni segmento della partitura mozartiana; se si osserva il tessuto orchestrale del secondo movimento del Concerto, si noterà una scrittura naturale e spontanea che esprime un pensiero musicale profondo e compiuto.

Ed ecco una seconda qualità della scrittura mozartiana, la compiutezza, nel senso che le frasi sono sempre perfettamente definite: tutto questo, agli occhi di fans romantici, è apparso talvolta come freddezza. Ma è completamente falso: l’attenzione formale non scade mai in pedanteria accademica, non soffoca mai l’emotività libera e sublime della pagina mozartiana. Ancora una volta in lui coesistono forze opposte, si ritrovano gli estremi, e tutto questo, senza lotta apparente, senza il dramma dei futuri romantici.

La chiarezza, altro elemento della scrittura mozartiana.

Chiarezza, dal nostro punto di vista, vuol dire precisione esecutiva, esattezza dell’articolazione, misura delle dinamiche.

E’ l’aspetto tipicamente classico e illuministico della musica di Mozart: tutto è chiaramente rivelato. Mozart non parla per metafore, il suo linguaggio è logicamente chiaro, determinato, inequivocabile. Qui il rischio è quello di confondere la linearità della scrittura con la superficialità del pensiero. Ma questo, ancora una volta, solo a causa di un gravissimo errore di fondo: quello di pensare che il pensiero contorto, drammaticamente elaborato sia espressione di un universo più vasto e più interessante.

La “semplicità” di Mozart è – al contrario – lo specchio della profondità, anzi, dell’infinità del suo pensiero musicale.

Equilibrio, compiutezza, chiarezza, e ancora…

Un grande senso ritmico, proprio nel significato che noi vogliamo attribuire a questo termine: l’espansione del pensiero musicale nel tempo. Ciò sembrerebbe banale o scontato, ma non lo è affatto. Senso ritmico equivale alla qualità del tempo, non certo alla sua scansione, e questo perché il pensiero musicale vive nell’essere che è – contemporaneamente – divenire. Quando si ascolta una Sinfonia di Mozart (o qualunque altra sua composizione), si avverte chiaramente che la pulsazione ritmica è qualcosa di realmente vivo, palpabile, è presente e futuro allo stesso tempo. Si ha la sensazione che l’attimo, l’istante non possa vivere – neanche concettualmente – senza la sua immediata espansione nell’eterno. Viceversa, il tutto è inconcepibile al di fuori dell’attimo presente, della frazione infinitesimale del presente realmente attuale. Ciò può essere valido per ogni musica, per ogni compositore, certo; ma in Mozart è più percepibilmente svelato. Anche nella liricità di un Adagio permane fortissima questa coincidenza tra l’attimo e l’eterno, tra il piccolissimo presente e il tempo infinito. Osserviamo, per esempio, l’ingresso delle voci nel Mottetto “Ave Verum Corpus” KV 618, una delle sue ultime composizioni:

E’ un movimento lento ma non per questo fermo, vive sospeso nel presente senza rinunciare al suo futuro, si espande nell’infinito ma – allo stesso tempo – riempie gli attimi infinitesimali del reale. Ecco, un’altra sintesi sublime: l’attimo presente con l’eterno infinito, un altro segno della genialità di una entità unica e – forse – irripetibile.

Potrei citare molti altri esempi: l’inizio del secondo movimento del nostro Concerto, o il secondo tema in La maggiore; il tema in Mi minore del Minuetto, l’inizio del Requiem… E’ tutta la musica di Mozart, ogni battuta, ad essere testimone di un autentico prodigio.

Ancora, la teatralità: i temi mozartiani, anche se riferiti a produzioni strumentali, sono “presenze” teatrali. E questo per la caratterizzazione precisa dei temi stessi, ognuno dei quali si presenta con una “personalità” facilmente identificabile, come personaggi di una commedia che entrano in scena, si muovono, dialogano.

E inoltre: la grazia, intendendo non certo i modi ruffiani del cicisbeo settecentesco, ma il sorriso di una consapevolezza superiore. Mozart è umano, divinamente umano e, allo stesso tempo,… umanamente divino. In Mozart c’è semplicemente l’uno e il tutto, il micro e il macrocosmo, la verità della trascendenza e la consapevolezza dell’identità terrena.

Suggerimenti per l’esecuzione

Innanzitutto, il suono. Senza generalizzare, consiglierei un suono controllato nell’emissione, di colore non eccessivamente chiaro e, all’interno, pregnante e ben definito, timbricamente vivo ma lontano dalle eccessive coloriture romantiche.

Anche il vibrato deve necessariamente riflettere questa particolare presenza timbrica: un vibrato vivo, però non stretto né tampoco costante. Risulterebbe altrimenti noioso. In definitiva, un suono ben appoggiato che consenta la declamazione delle note, specialmente negli Adagi, ma allo stesso tempo “alleggerito”, attraverso l’impiego dell’apparato muscolare della faccia che privilegi una risonanza “in alto”.

L’articolazione: il peso delle note, gli accenti, lo svolgimento rapido di successioni, vanno concepiti da un punto di vista pianistico.

Un esempio specifico: pensiamo all’ingresso del solista all’inizio del primo movimento del Concerto in Re Maggiore KV 314: un pianista non si sognerebbe mai di forzare questa rapida successione ascendente, appesantendola con accenti su ogni quartina o appoggiandosi eccessivamente sulla prima nota della scala, come purtroppo si è spesso costretti a sentire. Ascoltando i Concerti per pianoforte di Mozart potremo meglio capire cosa può significare la misura dell’articolazione, il peso del suono, traendo spunti di riflessione utilissimi alla esecuzione flautistica. Non dobbiamo adattare Mozart alla tecnica del flauto; semmai dobbiamo migliorare la nostra tecnica pensando di concepirla in modo nuovo, pianistico appunto. Faremo i conti con le difficoltà di un suono e di una articolazione omogenea, con l’equilibrio nei tre registri. Ancora una volta, sono la misura e il controllo a definire il modello e lo stile dell’articolazione.

Negli Adagi può esserci di aiuto il canto. Occorre allora studiare lo stile vocale delle opere mozartiane. Non si può eseguire l’Andante in Do Maggiore KV 315 o il secondo movimento del Quartetto in Re Maggiore con il colore e l’emotività con i quali vengono eseguiti Una furtiva lagrima, o Casta Diva, o Recondita armonia. Siamo in un mondo diverso, la vocalità è di altra natura. Non possiamo enfatizzare il colore del suono, con soluzioni timbriche romantiche, forse più vicine a noi che non a Mozart. Ancor più negli Adagi la forma deve essere sempre perfettamente riconoscibile: ma è all’interno di ogni singola frase, di ogni singola nota che dobbiamo ricercare quel sapore sottile di un saper essere che non è necessità di apparire. Capisco che la cosa non è delle più semplici, ma Mozart è profondamente semplice, chiaro. Ed è altrettanto chiaro che in due secoli di storia abbiamo perduto la chiarezza dell’intelligenza, la semplicità dell’emotività pulita.

Le Cadenze, altro problema. Ripercorriamo brevemente la genesi e la funzione della cadenza. Era nata per consentire all’interprete di sviluppare, sul momento, nuclei tematici, strutture armoniche, progressioni, e misurare, nel contempo, la propria maestria esecutiva. Se si comprende bene tutto ciò, possiamo sicuramente affermare che:

  • sono inutili, brutte e fuori stile tutte quelle cadenze che finiscono col costituirsi quasi come “concerto nel concerto”;
  • la Cadenza deve apparire contestuale, cioè non deve dare mai l’impressione di un qualcosa di aggiunto, di “appiccicato” posteriormente, non deve appesantire la scorrevolezza della forma, non può alterarne il disegno. Ho affermato spesso che quanto più essa “si confonde” nel movimento, tanto più sarà giusta ed apprezzata;
  • anche nella durata la cadenza non può risultare eccessivamente lunga. Con Mozart “meno si parla e meglio è”: nel senso che più limitata è l’estensione della cadenza e minore è il rischio di misurarsi inopportunamente, e di alterare un disegno formalmente sempre perfetto;
  • in considerazione del fatto che la cadenza andrebbe improvvisata sul momento, cioè in concerto, essa non può essere eccessivamente cerebrale ma, al contrario, deve essere la riflessione e l’elaborazione sincera di aspetti del movimento che l’interprete ritiene per sé adatti ad un possibile svolgimento “virtuosistico”.

O. Zaralli

www.onoriozaralli.webnode.it | Scuola Flautistica Italiana | Youtube

O. Zaralli si diploma con il massimo dei voti in flauto presso il Conservatorio di Musica “S. Cecilia” di Roma, conseguendo successivamente il diploma “solista” al Royal College of Music di Londra. Premiato nei concorsi di Ancona, Stresa, Palmi e Città di Castello, matura esperienze orchestrali in seno all’Orchestra della Radiotelevisione di Bucarest, Orchestra Sinfonica di Sanremo, Orchestra Sinfonica dell’Accademia Nazionale di S. Cecilia di Roma. Come solista, è attivo in Europa, USA, Messico, Korea, Australia. E’ autore di libri, studi e composizioni per flauto.